Riporto questo saggio di Marino Badiali e Massimo Bontempelli
fra fine 2010 e inizio 2011. Interessante la sua attualità
1. Introduzione
L’autunno del 2010 verrà ricordato come l’inizio
dell’autunno o del tramonto di Berlusconi. Il segnale più evidente di questo
tramonto è forse l’attacco che i giornali da lui dipendenti hanno sferrato,
all’inizio di ottobre, contro Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria.
Si tratta evidentemente di una mossa disperata, dovuta all’incapacità da parte
di Berlusconi di gestire i problemi e gli scontri interni ai ceti dominanti
italiani. E’ del tutto ovvio che egli non può permettersi, senza minare le basi
del suo potere, di attaccare i poteri rappresentati dalla Confindustria, e di
portare lo scompiglio e l’insicurezza fra gli stessi vertici del potere reale
nel nostro paese.
Il ciclo degli ultimi quindici anni della vita
italiana, dominato, sul piano dell’immaginario diffuso, dalla “discesa in
campo” di Berlusconi e dall’antiberlusconismo delle sinistre, ha segnato lo
sprofondare del nostro paese in una declino sociale, civile e morale che si è
tradotto in una ulteriore perdita di diritti dei lavoratori, in un costante
abbassamento del reddito reale dei ceti medi e bassi, nella disgregazione del
tessuto connettivo del paese, nel diffondersi della corruzione, nel controllo
da parte della criminalità organizzata di vaste zone del territorio nazionale.
Si tratta di fenomeni che stanno ormai mettendo in pericolo la coesione sociale
e l’unità politica del paese.
Chi voglia opporsi a questa decadenza deve elaborare
una interpretazione chiara e convincente di quanto sta accadendo, e noi
intendiamo cominciare. Nel fare questo tenteremo di rispondere a tre domande.
La prima: Berlusconi rappresenta un effettivo pericolo per la democrazia? E’
possibile cioè che, di fronte alla prospettiva della propria definitiva
sconfitta, Berlusconi tenti la carta di una eversione della democrazia? La
seconda: se si ammette il pericolo di una “dittatura berlusconiana”, ha senso
allora parlare del berlusconismo come di una forma di fascismo? E infine ha
senso, per combattere un tale “fascismo berlusconiano”, proporre lo schema
dell’unità antifascista fra tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Si
tratta, come è evidente, di domande alle quali è necessario rispondere se si
vuole elaborare una strategia politica che blocchi la decadenza del nostro
paese e allontani lo spettro della dissoluzione politica, sociale e morale
della nazione italiana. Per chiarezza, anticipiamo subito le nostre risposte a
queste tre domande. In primo luogo, riteniamo che Berlusconi rappresenti
davvero un pericolo per la democrazia, e che la possibilità di una “dittatura
berlusconiana” non sia esclusa. In secondo luogo, riteniamo che tale dittatura
non avrebbe nulla di “fascista”, e che non avrebbe quindi senso proporre lo
schema dell’unità antifascista contro di esso. Nel seguito cercheremo di
argomentare queste tesi.
2. Feudalità criminale.
La realtà sociale e politica dell’Italia di oggi è
espressione di fenomeni generali che fanno parte della fase attuale del
capitalismo, ma possiede anche una sua specificità, legata sia ad aspetti
storici di lunga durata sia alle dinamiche politiche degli ultimi anni. Volendo
descrivere alcune di queste caratteristiche generali del mondo contemporaneo,
abbiamo in passato usato le espressioni “capitalismo assoluto” o “totalitarismo
capitalistico”[1]. Con esse intendiamo indicare il fatto che il rapporto
sociale capitalistico è divenuto “assoluto”, cioè non ammette più nessuna
(relativa) autonomia di istituzioni non economiche. Lo Stato diventa
un’azienda, gli ospedali e le scuole diventano aziende, le stesse più intime
relazioni umane devono venir gestite in termini “aziendali”. Questo
totalitarismo ha come ovvio effetto lo svuotamento di ogni senso della
politica. Se ogni decisione sull’economia è imposta dai mercati e tolta alla
politica, quest’ultima si riduce ad una attività vacua e autoreferenziale. E
questo è esattamente quello che succede: in tutto il mondo del capitalismo
avanzato il ceto politico tende a non incidere minimamente sulla realtà
sociale, che è abbandonata alle dinamiche dell’economia capitalistica. La
politica in sostanza deve solo garantire la dinamica economica da ogni
interferenza contraria, e raggiunge questo risultato appunto con la propria
autoreferenzialità che la rende impermeabile alle sofferenze e ai conflitti che
la dinamica economica fa sorgere nella società. In cambio di questa garanzia il
ceto politico può vivere parassitariamente a spese della ricchezza sociale.
Questa configurazione della realtà sociale vale per tutto il mondo occidentale.
Ad essa si aggiungono però, in Italia, quelle specificità alle quali abbiamo
sopra accennato. Per comprenderle, occorre partire dal fatto che in Italia vi è
una tradizione storica per la quale la politica è una forma abbastanza diffusa
di sbocco occupazionale dei ceti medi. Le origini di questa particolarità
storica andrebbero probabilmente ricercate nel modo stesso in cui si è
sviluppato in Italia il capitalismo industriale, con un forte intervento
statale, ma per non andare così lontano basterà ricordare come questo aspetto
della politica in Italia sia stato molto visibile durante il fascismo:
Mussolini riuscì infatti a neutralizzare gli aspetti più eversivi del movimento
fascista, e a fare del Partito fascista una semplice cassa di risonanza
propagandistica della sua gestione per via burocratica dello Stato, grazie alla
trasformazione dei quadri fascisti in funzionari stipendiati di enti statali o
dello stesso Partito Nazionale Fascista. Se nell’immediato dopoguerra questo
processo conosce una battuta d’arresto, perché il ceto politico emerso dalla
Resistenza esprime una cultura diversa, esso però riprende rapidamente con la
creazione degli apparati dei vari partiti di massa. L’episodio emblematico di
tale processo è lo scontro che nella DC, poco prima della morta di De Gasperi,
vede protagonisti lo stesso De Gasperi e Fanfani. Quest’ultimo vuole in
sostanza che il partito si crei una base elettorale indipendente dalla Chiesa,
e per questo ha bisogno di un ceto di funzionari stipendiati che viene creato
sfruttando le risorse occupazionali dell’amministrazione pubblica. Gli altri
partiti di massa della Prima Repubblica imiteranno il modello democristiano. A
partire da queste premesse, attraverso una dinamica storica che sarebbe troppo
lungo ricostruire qui, siamo arrivati alla situazione attuale, nella quale il
ceto politico italiano appare come uno dei più estesi, dei più corrotti e dei
più rapaci dell’intero mondo occidentale. Questo particolare fenomeno si deve
alla sostanziale impunità di cui la corruzione politica ha potuto godere in
Italia, con l’eccezione di pochi casi isolati e del momento storico di Mani Pulite.
Le ragioni di questa sostanziale impunità stanno probabilmente in aspetti “di
lunga durata” dell’Italia, che da molto tempo sono stati indicati
all’attenzione pubblica (mancanza di senso dello Stato, “familismo amorale”).
Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, in presenza di una occupazione
delle strutture pubbliche da parte dei partiti, la sostanziale impunità della
corruzione genera un ceto politico che si espande sempre di più. Infatti, in
mancanza di repressione dei comportamenti illegali, la forza di cui ciascun
politico dispone nelle lotte per il potere è direttamente proporzionale alle
dimensioni delle propria corte di clienti. Il progressivo estendersi di queste
corti clientelari, dovuto anche al progressivo venire meno, in larga parte dell’opinione
pubblica, di ogni tipo di resistenza alla corruzione generalizzata, crea alla
fine un problema di risorse. Le stesse risorse statali diventano insufficienti
e il ceto politico, per finanziarsi, si introduce nel mondo dell’economia, non
ovviamente per dirigerla o indirizzarla (il che sarebbe in contrasto, come
dicevamo all’inizio, con la natura stessa della politica contemporanea), ma per
diventare mediatore d’affari e lucrare guadagni. Questo avviene in tanti modi
diversi, per esempio grazie al controllo del territorio di cui dispone il
politico e al fatto che è necessaria la sua mediazione per mettere in opera
progetti di costruzioni di un tipo o dell’altro, oppure grazie alla possibilità
per il politico di far saltare agli imprenditori “amici” le lungaggini
burocratiche effettivamente presenti in Italia. Il fenomeno Berlusconi si
inserisce in questa dinamica e ne rappresenta la summa perfetta.
La sostanza del “fenomeno Berlusconi” ci sembra
infatti la seguente: Berlusconi è riuscito a scalare tutti i gradini del potere
economico e politico perché ha saputo trarre decisivi vantaggi competitivi da
una sistematica e sfacciata violazione di ogni regola esistente. Negli anni
Sessanta era soltanto un palazzinaro di modeste risorse, a cui spesso difettavano
i denari da investire in nuove costruzioni. Benché partito da questa modesta
base economica, negli anni Settanta è diventato il più grande imprenditore
edile milanese, perché non ha rispettato quasi nessuna regola dell'attività
edilizia legale, e perché i suoi cantieri hanno veicolato capitali della mafia
siciliana. Berlusconi non era un mafioso, ed all'inizio è stato piuttosto
ricattato dalla mafia palermitana dei Bontade, ma questo rende ancora più
significativo il fatto che egli si sia affermato violando le regole, perché lo
ha fatto sfruttando una situazione esistente che gli consentiva di farlo. Negli
anni Ottanta è diventato il più grande imprenditore televisivo italiano perché
ha violato le regole allora esistenti sull'emittenza televisiva, sancite
addirittura da una sentenza della Corte Costituzionale del 1976. Anche in
questo caso, lo ha fatto perché poteva farlo, in quanto era protetto dal
governo sfacciatamente corrotto di Bettino Craxi, al quale in cambio offriva il
sostegno delle sue televisioni. Negli anni Novanta, prima ancora di presentarsi
alle elezioni con un suo partito, ha manovrato grandi risorse finanziarie
(senza le quali non avrebbe potuto primeggiare anche in politica) grazie a
molteplici illeciti finanziari e a massicce evasioni fiscali, sfruttando la
nota tolleranza dello Stato italiano verso gli evasori. L'intera vicenda mostra
che Berlusconi non è l'uomo che ha inventato i mali italiani, ma è quello che
ha saputo trarne il massimo vantaggio, e che, di conseguenza, ha contribuito ad
aggravarli e diffonderli. Berlusconi, in altre parole, è emerso ai vertici del
potere italiano sull'onda di un preesistente e contestuale sviluppo, nel nostro
paese, di un “capitalismo mafioso” associato ad uno Stato debole. Parliamo di
capitalismo mafioso non nel senso stretto della parola, cioè di un capitalismo
i cui capitali provengano dai guadagni delle attività della criminalità
organizzata, ma in un senso più lato e significativo. Può considerarsi mafioso
un capitalismo predatorio di risorse pubbliche, di cui ci si appropri, al di
fuori di ogni regola pubblica, uscendo vittoriosi dagli scontri tra
contrapposti interessi privati. Per il capitalismo mafioso così inteso è
essenziale un controllo sulla politica, per controllare la concessione degli
appalti e l'erogazione della spesa pubblica. Ciò presuppone, a sua volta, uno
Stato debole, dove per “debole” si intende qui politicamente incapace di
dettare e far rispettare regole generali che disciplinino il perseguimento
degli interessi economici particolari. L'egemonia politica di Berlusconi è
quindi stata espressione dell'ascesa al potere di una serie di potentati
affaristici interni al capitalismo mafioso nell'accezione suddetta. Alla luce
di questo contesto dell'egemonia politica di Berlusconi, appare chiaro il
motivo profondo del suo attuale tramonto. Nessun regime istituzionale, infatti,
può reggersi di fronte alla violazione totale e sistematica di ogni vincolo di
natura pubblica. Ogni regime conosce fenomeni più o meno estesi di illegalismo rispetto
ai suoi propri principi di legalità. Se però l'arbitrio dei suoi poteri diventa
l'unico principio regolatore dei rapporti economici e sociali, l'organizzazione
sociale e politica si sfalda alla fine, necessariamente, in una arena di feudi
affaristico-criminali in reciproco conflitto almeno potenziale. Il capitalismo
mafioso, inteso nel senso lato sopra indicati, si evolve quindi in una sorta di
feudalesimo criminale. La realtà dei ceti dominanti oggi in Italia, al tramonto
di Berlusconi, si presenta quindi come una labile confederazione di potentati
politico-imprenditoriali, in continua lotta per le risorse da accaparrare. Il
sostanziale illegalismo di questi potentati esprime il carattere fortemente
instabile della situazione. Un rispetto (sempre parziale e relativo) della
legalità significa infatti, per i ceti dominanti, la protezione dagli effetti
altrimenti devastanti dei loro conflitti. L’illegalismo significa che nessuna
regola è rispettata e in questa situazione nessuna configurazione del potere
può essere protetta.
Tutto ciò crea per la democrazia italiana un pericolo
di tipo nuovo. L’insieme di questo mondo della corruzione
politico-imprenditoriale ha bisogno di un potere politico che renda intoccabile
la corruzione rendendo inoffensive e inoperanti le varie forme di controllo di
legalità degli atti sociali. Poiché questo non si può fare all’interno del
quadro delle regole di uno Stato di diritto, appare evidente che il mondo della
corruzione politico-imprenditoriale rappresenta la base sociale di una
possibile dittatura. Le caratteristiche di questa dittatura sarebbero
naturalmente diverse da quelle delle dittature del Novecento. Invece di
attivizzare le masse inquadrandole nei ranghi del Partito-Stato, la nuova
dittatura cercherebbe la completa riduzione dei cittadini a fruitori passivi
dello Spettacolo. E l’obiettivo unificante di una tale dittatura non sarebbe né
la gloria della Nazione né la Rivoluzione Proletaria, ma l’abbattimento di
tutti i poteri di controllo sulla corruzione dei potenti. Si tratterebbe
inoltre, come abbiamo accennato sopra, di una dittatura poco stabile, perché
basata su potentati in feroce lotta fra di loro per le risorse. Una tale
dittatura non verrebbe realizzata attraverso una presa violenta del potere (la
marcia su Roma), ma attraverso lo stravolgimento del normale funzionamento dei
meccanismi istituzionali. La Costituzione della Repubblica Italiana prevede
infatti, come tutte le Costituzioni liberaldemocratiche, meccanismi di
controllo che impediscono ad una maggioranza governativa di eccedere i limiti
stabiliti del proprio potere e di conculcare i diritti della minoranza e dei
cittadini in genere. Si tratta dei meccanismi che oggi vengono comunemente indicati
con la formula inglese dei checks and balances. Il punto è che nella
nostra Costituzione tali meccanismi sono strettamente collegati al fatto che i
Padri costituenti avevano immaginato per l’Italia un meccanismo elettorale di
tipo proporzionale, nel quale quindi un singolo partito aveva scarse
possibilità di conquistare larghe maggioranze. Dato questo punto di partenza,
la principale forma di controllo inserita nella nostra Costituzione è legata al
fatto che una serie di meccanismi cruciali per l’equilibrio istituzionale
(elezione del Presidente della Repubblica, cambiamenti della Costituzione),
richiedono larghe maggioranze e quindi, all’interno di un meccanismo di voto
proporzionale, richiedono l’accordo fra forze diverse, rendendo quindi
difficile che la singola forza politica possa occupare tutti questi punti
nevralgici. Lo stravolgimento del sistema elettorale italiano, con l’abolizione
del meccanismo proporzionale, ha eliminato questi delicati meccanismi di
controllo, rendendo quindi possibile uno stravolgimento della Costituzione
operato senza formalmente trasgredirla. Si può infatti pensare ad una elezione
che venga largamente vinta da Berlusconi e che dia vita ad un Parlamento
largamente sotto il suo controllo, che lo elegga Presidente della Repubblica e
che gli sottometta la maggioranza dei giudici della Corte Costituzionale. In
tale situazione il Parlamento potrebbe votare qualsiasi legge che stravolga
totalmente la nostra Costituzione ed essa verrebbe approvata sia dal Presidente
della Repubblica sia dalla Corte Costituzionale. Esiste la possibilità che
Berlusconi diventi il dittatore di una tale dittatura. Non è lo scenario
secondo noi più probabile, nella situazione odierna (autunno 2010). E’ infatti
evidente che i ceti dominanti italiani hanno deciso di liberarsi del
personaggio Berlusconi, ed è pure evidente che egli non gode dell’appoggio
degli Stati Uniti, che hanno sempre giudicato negativamente i suoi rapporti con
la Russia di Putin. Pur non essendo l’eventualità più probabile, la dittatura
berlusconiana è comunque una possibilità. Berlusconi si trova infatti in una
situazione nella quale non esiste per lui alternativa tra una discesa nella
rovina politica e personale e un’ascesa all’esercizio di una dittatura di
fatto. E’ ovvio come in una tale situazione tutti i suoi comportamenti pubblici
siano suscitati da una pulsione incoercibile a stravolgere ogni regola
costituzionale che si frapponga come ostacolo all’ascesa. Se tale
stravolgimento fosse portato a compimento, ci ritroveremmo nella situazione
appena indicata, con quest’uomo superficiale, vacuo, privo di ogni base
culturale e senso dello Stato, nell’alto seggio di Presidente della Repubblica,
circondato da un parlamento con una maggioranza disposta a fare tutte le leggi
da lui volute, e da una Corte Costituzionale riempita di membri da lui
dipendenti, e mai disposta, quindi, ad abrogare le sue leggi anche se
palesemente incostituzionali. La situazione attuale di Berlusconi mostra una
certa analogia con quella di Mussolini nel ’24, all’indomani dell’omicidio
Matteotti. Anche in quel caso, vi erano evidenti segni di un inizio di
sfaldamento del partito di regime, con passaggi all’opposizione di diversi suoi
esponenti. Anche in quel caso, la tensione politica era accentuata da problemi giudiziari
del capo del governo (Mussolini aveva ricevuto tangenti dalla ditta petrolifera
Sinclair Oil, una controllata della Standard Oil). Anche in quel caso, in
sostanza, il capo del governo si trovava costretto alla scelta fra la rovina
politica e personale e l’abbattimento delle regole democratiche con conseguente
creazione di una dittatura personale. Sappiamo come finirono le cose allora.
Oggi, l’unico esito che potrebbe salvare Berlusconi sarebbe la creazione di una
dittatura, nelle forme sopra indicate. Una simile dittatura sarebbe nata da, e
si eserciterebbe su, una società eticamente collassata, tenuta insieme dai
circuiti del consumismo e dello spettacolo, con una parte della popolazione
sempre più privata di lavori, redditi, consumi e servizi, e quindi sempre più
marginalizzata dai processi sociali e ridotta ad elemento della loro
disgregazione, ed un’altra parte della popolazione capace di ottenere e
consumare risorse attraverso meccanismi corruttivi. La questione di fondo per
voglia combattere contro la dissoluzione dell’Italia sta però in questo: anche
se l’eventualità di una dittatura berlusconiana non dovesse verificarsi, e
Berlusconi fosse costretto a uscire di scena in un modo o nell’altro (e questo,
ripetiamo, è ciò che riteniamo più probabile), il sistema di feudalesimo
criminale che ha portato al potere Berlusconi non verrebbe intaccato, e il
pericolo che esso rappresenta per l’Italia non verrebbe scalfito. Dall’analisi
che abbiamo sopra svolto si possono infatti trarre precise indicazioni per il
futuro, che sono le seguenti.
In primo luogo, la fine dell'egemonia politica di
Berlusconi non rappresenterà alcun indebolimento di quel capitalismo mafioso su
cui la sua egemonia è stata costruita. Le forze sociali costitutive del
berlusconismo rimarranno forti ed operanti come prima. In secondo luogo, le
tensioni interne al capitalismo mafioso che sono all'origine del tramonto di
Berlusconi non verranno attenuate, ma si riproporranno addirittura accentuate,
sia per il crescente morso della crisi economica, sia per l'uscita di scena di
Berlusconi. Fino ad ora, infatti, tali tensioni sono state attenuate proprio
perché si sono trasferite sul personaggio Berlusconi, creando l'illusione prima
che potessero essere regolate in maniera soddisfacente dal suo potere
arbitrale, poi, che, rimosso Berlusconi, sparirebbero diversi problemi creati
soltanto dai suoi interessi personali. Naturalmente non sarà così. Dopo
Berlusconi continueranno come prima, ed anzi più di prima, gli scontri fra
cordate affaristico-mafiose prive delle risorse con cui soddisfare la fame di
tutte, e tra gruppi sociali sempre più estesi investiti dal malessere sociale.
Assisteremo ad uno sgranarsi di episodi di guerra civile strisciante, non tra
partiti o ideologie, ma tra gruppi sociali e territoriali. In terzo luogo, i
governi che succederanno a quelli di Berlusconi potranno essere molto più
decenti e presentabili sul piano interno e internazionale. Il loro modo di
operare all'interno dei palazzi del potere sarà certamente meno scorretto,
sguaiato e indecente di quello dei ministri dell'epoca berlusconiana. Tuttavia
non saranno assolutamente in grado, per ragioni che qui sotto molto
succintamente esponiamo, di contrastare la virulenza e la proliferazione del
capitalismo mafioso che sta divorando l'Italia, e quindi di arrestare i
processi di decadenza civile e sociale del paese.
L'errore più grave che si possa commettere in questa
situazione è infatti quello di considerare ragionevole che forze interne
all'attuale ceto politico possano, dopo aver scalzato Berlusconi, invertire
l’attuale tendenza alla decadenza. Si tratta di un'illusione ottica creata da
una forte e naturale pressione emotiva: cosa può esserci di peggio di un
Berlusconi che capovolge la situazione e riconquista governo e maggioranza?
Cosa ci può essere di più orrendo di una maggioranza parlamentare che elegga
Berlusconi Presidente della Repubblica, e quindi “custode e garante” della
Costituzione? Cosa ci può essere di più pericoloso di una dittatura
berlusconiana sulla vita politica del paese? Questi esiti appaiono così
ripugnanti ad ogni persona sensata da far pensare che valga la pena, pur di
evitarli, di promuovere alla guida del governo persino capi politici come
Bersani, Rutelli, Casini e Fini. Chiunque, insomma, andrebbe bene purché
Berlusconi uscisse dalla scena. Se ci si affida alla razionalità si può capire
quanto questa impostazione sia sbagliata. Per comprenderlo facciamo un passo
indietro nella storia di questo paese. Berlusconi ha conquistato la guida del
governo una prima volta con le elezioni del marzo 1994, sull'onda di un
sostegno popolare assai vasto, che aveva però il suo asse portante nelle forze
e nelle capacità di influenza del capitalismo mafioso. Ciò nonostante il suo
governo è durato soltanto dieci mesi, e nel 1995 l'evoluzione della vita
politica italiana sembrava averlo messo definitivamente da parte. Il suo
ritorno alla guida del governo nel 2001, con maggiore stabilità e più
penetranti poteri, è avvenuto perché negli anni Novanta il capitalismo mafioso
si è rafforzato e maggiormente diramato nel paese. In quegli anni, però, non ha
governato la destra, ma il centro-sinistra, con maggioranze estese fino a
Rifondazione comunista. La logica implicazione di ciò è che i governi di
centro-sinistra non hanno contrastato, ma anzi favorito, lo sviluppo delle
forze sociali a cui Berlusconi apparteneva e da cui traeva sostegno. Sei anni
di governi con maggioranze di centro-sinistra, dunque, hanno concimato il
terreno per i successivi trionfi berlusconiani. Né è difficile trovare fatti
che costituiscano prove decisive di ciò che abbiamo visto implicato dalla
stessa logica dell'intera vicenda. Secondo il senso comune di sinistra, uno dei
migliori governi dell'epoca è stato quello diretto da Carlo Azeglio Ciampi. Non
c'è dubbio che Ciampi sia una persona sobria ed individualmente per bene
(lontanissimo dall'indecenza dei “berluscones”), e tuttavia è stata la sua
legge bancaria, emanata con decreto legislativo del 1° settembre 1993, ad
aprire alle banche le praterie delle acquisizioni azionarie di società
industriali e delle speculazioni finanziarie, fornendo così un alimento
decisivo allo sviluppo del capitalismo mafioso. Ed è stato il decreto-legge di
Ciampi del 24 settembre 1993 a sancire che per le privatizzazioni che stavano
per essere avviate non dovessero valere le regole della contabilità generale
dello Stato, aprendo la strada alle svendite sottocosto e corruttive dei beni
pubblici. Grazie a questa legge l'IRI di Romano Prodi ha potuto consegnare a
prezzi irrisori, alla fine del 1993, una delle maggiori banche pubbliche
italiane, il Credito Italiano, a una cordata di finanzieri italiani e stranieri
(che l'hanno pagata in parte con danaro prelevato dalla banca stessa), dando
così una spinta decisiva ad una finanziarizzazione dell'economia funzionale
allo sviluppo del capitalismo mafioso. Il primo governo Prodi, uscito dalle
elezioni del 1996, che nel senso comune della sinistra passa come uno dei
migliori governi dell'ultimo ventennio, ha dato il massimo impulso alla
finanziarizzazione dell'economia ed al capitalismo mafioso con la sciagurata
privatizzazione della STET nel 1997, senza la quale non avrebbe potuto
verificarsi, anni dopo, il saccheggio della Telecom da parte di Tronchetti
Provera, e l'uso della Telecom stessa per finalità illecite. Naturalmente
ognuno di questi punti, e diversi altri ancora, andrebbero analizzati più in
dettaglio, cosa che qui non è sensato fare [2]. Quel che vogliamo dire è che
l'epoca dei governi del centro-sinistra degli anni Novanta non ha favorito la
rinascita di Berlusconi soltanto in quelli che sono considerati dall'opinione
pubblica di sinistra i suoi “errori” (il non aver affrontato la questione del
conflitto d'interessi di Berlusconi ed averlo legittimato come padre costituente
nella Bicamerale di D'Alema), ma l'ha favorita anche e soprattutto con tante
scelte di promozione del capitalismo mafioso che quell'opinione pubblica di
centrosinistra ha voluto dimenticare. Berlusconi, sconfitto alle elezioni del
2006, è tornato al governo più prepotente di prima dopo altri due anni di
governo Prodi. Insomma, ogni volta che ha governato il centro-sinistra, non ha
fatto che preparare la strada al ritorno di una destra ancora più incarognita.
Tutto ciò dipende dal fatto che il ceto politico di centro-sinistra non ha, per
ragioni che tra poco diciamo, i mezzi culturali, le competenze, e le intenzioni
concrete, di modificare le linee di tendenza dello sviluppo socio-economico. Ma
se queste tendenze non vengono modificate, l'Italia non può che precipitare
sempre più nel baratro. In maniera del tutto indipendente dal fatto che chi la
dirige sia una personalità indecente come Berlusconi, o una personalità più o
meno presentabile o addirittura soggettivamente in buona fede. La lotta contro
Berlusconi è inutile se non pone al centro dell’agenda la bonifica del terreno
da cui nasce il berlusconismo, cioè il terreno della dilagante corruzione
politico-imprenditoriale. Se non si bonifica questo terreno, l’eventuale caduta
di Berlusconi non risolverà nulla, e i fenomeni degenerativi che ora associamo
al nome di Berlusconi si riprodurranno in seguito a percorsi oggi
imprevedibili.
Torniamo alla situazione del nostro paese. L'Italia
sta precipitando in un baratro spaventoso perché disfatta da un triplice
collasso: della sua coesione sociale (crescenti ineguaglianze di reddito,
devastante precarizzazione del lavoro e della vita, assenza di tutele sociali),
del suo territorio (inquinamento dell'aria, dei suoli e delle acque, dissesto
idrogeologico, invasione dei rifiuti), e della sua vita civile (corruzione
generalizzata e capillare, giustizia lenta e costosa, mancanza di senso morale
nelle relazioni sociali, inversione tra meriti e demeriti).L'esito più
probabile di futuri governi (siano essi governi ancora berlusconiani oppure no)
sarà, quindi, un caos sempre più accentuato e la deriva del paese, magari più
lenta, verso la condizione di una specie di Somalia più sviluppata e meno
insanguinata. Sicuramente non è questo l'esito gradito ai poteri che si sono
ora orientati a scalzare Berlusconi ed a favorirne la successione. Per tali
poteri, però, l'unica opzione confacente ai propri interessi, e praticabile di
fronte all’attuale crisi economica, è quella di salvare se stessi e abbandonare
i ceti medi e bassi alla devastazione sociale. Al di là delle loro intenzioni,
quindi, essi produrranno tale esito. Su un periodo più lungo, questa opzione
non potrà essere gestita all'interno delle forme istituzionali, anche soltanto
esteriori, che hanno contrassegnato l'Italia del secondo dopoguerra. Lo sbocco
finale di questa strada, se fosse percorsa per intero, sarebbe quindi uno
stravolgimento autoritario che farebbe passare l'Italia da una specie di
Somalia ad una specie di Cina, dove un potere forte verso i deboli e gerarchicamente
coeso al suo interno, impone regole limitatrici degli scontri di potere ai
vertici, e promotrici di uno sfruttamento feroce delle classi lavoratrici. In
sostanza, se non interviene una decisa rivolta del popolo italiano contro gli
attuali ceti dominanti, le uniche prospettive che abbiamo di fronte sono, nel
breve periodo, quella di una dittatura berlusconiana da una parte e di governi
antiberlusconiani, ma incapaci di arrestare la decadenza del paese, dall’altra.
Nel medio-lungo periodo entrambe queste opzioni porteranno, per strade diverse,
ad una soluzione di tipo “cinese”. Lo scenario che abbiamo fin qui delineato è
chiaramente uno scenario da incubo, nel quale viene messa in questione la
stessa sopravvivenza della società italiana. Ma questo incubo non è fascismo.
Per capire questo punto, e discutere le altre questioni di cui abbiamo
accennato all’inizio, dobbiamo adesso discutere cosa debba intendersi per
fascismo.
3. Cos’è il fascismo?
Continua